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La professione di carnefice è tra le poche ancor grandi e sacre in questo tediosissimo mondo, contristato da tutte le perfezioni della civiltà, e noi abbiamo finora indossata lietamente la rossa casacca dell'esecutore dell'alte opere di giustizia. Non potendo compiacere il nostro nobile istinto colla classica scure o colla gallica ghigliottina abbiamo troncato con dure parole le teste dei proscritti filosofi d'Italia. Ma per quanto dolce e lieve sia l'ufficio di macellator di filosofi — (hanno così poco sangue questi linfatici mangiatori di parole!) — viene il giorno in cui umilia il giuoco incruento. Ed io ho pensato: Uccidere dei filosofi, porli in berlina, gettarli nella putrida fossa comune del positivismo morituro e moribondo, attorcerli fra le maglie della nostra dialettica, perseguirli coi giavellotti del nostro sarcasmo, chiamarli a giudizio solenne, decapitarli a suon d'aggettivi con gran pompa di procedura e buona compnia in arme, combatterli insomma corpo a corpo, con lieta ferocia e ironica pertinacia, significa, in fondo, dar loro dell'importanza, additarli come nostri nemici terribili, mostrare di averne timore e di creder necessaria la loro uccisione per la nostra tranquillità spirituale. Solo è necessario uccidere, ammonisce Machiavelli, coloro che possono essere di grave pericolo agli Stati.
Ora tutto ciò non è nè può essere. I filosofi italiani non ci sono nemici e noi non li teniamo nemici nostri. Sono lontani, diversi, di un'altra sfera, in un altro mondo. Noi ridiamo delle loro facezie, dei loro costumi bizzarri, delle loro parole arcane come essi riderebbero — i saggi uomini! — di una scena di magia nell'arcipelago australe.
Perciò non li temiamo: non si ride di chi fa paura. Ma le apparenze potrebbero darlo a pensare e noi abbiamo rispetto al coraggio la medesima opinione che Cesare aveva sulla pudicizia delle matrone. Non voglio dunque mostrare, oggi, quella incurabile volontà di uccidere che il mio Giuliano adoprò per farsi necroforo del professore Giuseppe Sergi. Invece di pronunciare la condanna di un uomo in quanto è in un certo modo ed ha certe idee io dirò semplicemente a Roberto Ardigò: Voi non siete quello che dite e credete di essere ed io non combatto le vostre idee per la fortissima ragione che non ne avete. Vi credete positivista e siete scolastico — passate per antireligioso e siete teologo cristiano — supponete di possedere un sistema e i principii fondamentali della nostra filosofia non hanno nessun significato possibile. Non ho nessuna voglia di accopparvi ma vi prego gentilmente di tornare al vostro posto. A votrelace, monsieur!
Roberto Ardígò è l'esempio significativo di quel mutamento che è avvenuto dopo il 1850 in quella parte del clero che ama fare della politica e della filosofia, di quelli cioè che vogliono mischiarsi alla vita de' tempi loro e farsi capitani d'anime anche al di fuori della fede. Sono preti molto studiosi e qualche poco ribelli e il loro studio e la loro ribellione prendono gli atteggiamenti del pensiero laico al quale vogliono muovere e sul quale vogliono agire. Desiderano andare al mondo, uscire dal santuario ed essere vivi ed attivi anche fuori della tradizione, e il secolo, al secolo e il mondo si riflettono in loro e li fanno quasi stranieri nel tempio.
Nella prima metà del secolo XIX i rappresentanti maggiori di codesta specie di sacerdoti furono i due abati filosofi Rosmini e Gioberti, i quali, pur protestandosi cristiani e cattolici, vollero rinnovare per loro conto la filosofia delle scuole e vollero anche in misura diversa, prender parte alla vita pubblica dei tempi in cui vissero. E siccome i fatti dominanti del pensiero e della vita di quei tempi erano l'idealismo tedesco, e il liberalismo francese, essi furono idealisti e liberali e ambedue trasformarono e adattarono per le menti italiane le grandi scoperte della grande scuola romantica germanica, idealistica e razionalistica e d'altra parte desiderarono o aiutarono la liberazione politica della patria loro.
Il 1848, ch'è veramente la data centrale del secolo passato, cambiò e distrusse assai cose. La sconfitta dell'idealismo in filosofia sotto i colpi della sinistra hegeliana ribelle e materialista e la sconfitta del liberalismo progressista sotto i colpi dei cannoni della Santa Alleanza cambiarono l'aspetto della cultura e della pratica della seconda metà del secolo. Gli uomini e le menti reagirono: all'idealismo grandioso ma vuoto della tradizione hegeliana si andò sostituendo il naturalismo e il positivismo che venivan formandosi e diffondendosi in Francia e in Inghilterra, e alla compressione dell'assolutismo si contrappose non più il conciliante liberalismo ma addirittura la vera e propria democrazia, in seno alla quale s'andarono formando in quel tempo stesso, l'organizzazione e la ideologia proletaria. Dopo il '50, dunque, Rosmini e Gíoberti erano in Italia dei sopravvissuti chè il loro tempo migliore era finito e finito il loro dominio incontestato sulle menti. C'era bisogno di un successore e questi non poteva uscir che dal clero, perchè solo in esso, in quei tempi di preoccupazioni politiche, era possibile ancora l'amore dei problemi universali e della tranquilla meditazione.(1)
Il successore si fece aspettare e si rivelò precisamente quando l'opera dell'unità italiana fu compiuta, cioè dopo il '70.
Roberto Ardigò, colla sua Psicologia come scienza positiva, comparsa appunto nel 1870, ripigliava la tradizione italo-settentrionale dell'abate filosofante e politicante, perdutasi nell' intermezzo dell'hegelianismo napoletano.
La ripigliava, come tutte le tradizioni, trasformandola. Roberto Ardigò era un prete che aveva avuto vent'anni nel '48, cioè che s'era svolto intellettualmente dopo la grande crisi della metà del secolo; ma del '48 gli era restato lo spirito frondeur e il gusto della filosofia; ed egli non aveva temuto, mosso da gran desiderio di sapere, di porre a cimento la sua forte fede collo studio dei metafisici antichi e degli scienziati moderni. Ma la fede resistè per un pezzo ed egli, fra una somma teologica e un trattato di apologetica, sentì così forte il suo cattolicismo da scrivere sulla confessione contro gli evangelici.
Ma egli portava in sè degli elementi pericolosi alla sua fede. Primo l'istinto liberale, popolaresco, democratico, avuto in eredità dal quarantottismo e sviluppatosi dopo in lui per le vicende politiche fino ad accostarsi al repubblicanismo, e secondo, conseguenza dell'altro, l'istinto individualista, quell'orgoglio che poi gli farà dire di aver inventato da sè solo il suo sistema e gli farà ristampare nelle Opere filosofiche le apologie partigiane di Alberto Mario e i complimenti insipidi di Guido Baccelli. La democrazia e l'orgoglio sono già due cose che non possono andare insieme colla gerarchia e la disciplina cattolica, e a queste se ne aggiunse una terza: la cultura scientifica del tempo. Fra il '60 e il '70, cioè nel tempo in cui più intense sono state le letture scientifiche dell'Ardigò, il moto dominante è stato il naturalismo positivista e materialista, che aveva la sua dottrina in Comte, in Moleschott, in Buchner, e credeva di avere i suoi alleati in Darwin e Wallace.
Un moto il quale, malgrado le divergenze apparenti concordava in questo: che la metafisica era morta, che le astrazioni debbono esser bandite, che solo del fenomeno c'è scienza e che il mondo è dominato dal punto di vista statico dall'unità e dal punto di vista dinamico dall'evoluzione.
Il contatto continuato di queste concezioni cosi inconciliabili, almeno in apparenza, colla teologia cristiana ebbe il suo effetto nell'animo dell'Ardigò. L'educazione monista ed evoluzionista combinata colla superbia ribelle lo condussero all'apostasia. Un giorno la vista del rosso di una rosa gli rivelò il suo distacco dal pensiero tradizionale e il 10 Aprile 1871 egli rigettò pubblicamente la fede di sua madre e le insegne ecclesiastiche.
Cessò egli veramente quel giorno di esser prete? No certo e m'ingegnerò di mostrarlo. Lasciando la Chiesa egli perdette lo stipendio di canonico della Cattedrale, ma non ne perse tutte le idee. Nell'ateo positivista non ci sarà difficile ritrovare il teologo cristiano. «L'Italia, — scrisse il Carducci — la terra degli ottantamila monaci, per quanti sforzi faccia di darsi a intendere di esser libera, resta pur sempre in fondo teologale». L'Ardigò, che s'è data tanta pena per dimostrare la vanità delle prove dell'esistenza d'Iddio e che a Dio ha negato perfino il tenue omaggio tipografico della lettera maiuscola, è rimasto il prete dilettante di filosofia e di politica.
Nato venti anni prima, ai tempi del Rosmini e del Gioberti, avrebbe trovato il modo di metter d'accordo Kant o Hegel colla Chiesa Romana. Svoltosi nella virilità, nell'atmosfera irreligiosa del positivismo monista ed evoluzionista, egli ha creduto necessario staccarsi dal cristianesimo poichè la sua mente non ha trovato accomodamenti fra la scienza e il dogma e la sua onestà non ha voluto transazioni fra l'ateismo e il canonicato. Ma il suo eroismo diventa un po' comico quando ci s'accorge ch'egli non è in fondo nè uno scienziato nè un ateo, quando si vede che la sua struttura mentale è rimasta sempre, malgrado la lettura delle riviste di scienze, scolastica e cristiana.
Ed era necessario. Non si è impunemente cattolici fino a quarant'anni e non solo cattolici ma sacerdoti cattolici cioè difensori ministri e rivelatori della fede dei padri.
L'Ardigò non è di quelli che lasciano la Chiesa con lieto cuore: «indescrivibile l'ansia, scrive egli, onde ognora invano tentava di vincere la invasione sempre più profonda delle profane idee. Indescrivibile lo strazio, l'angoscia, la desolazione, in cui vissi allora per lungo tempo.» (II, 401).(2)
Quando ci si stacca con tanto dolore da qualche credenza significa che le radici son ben profonde e che qualcosa ne resta nell'anima ad onta di tutti gli sforzi.
Per lunghi anni e nei migliori, in quelli della giovinezza, quest'uomo s'è nutrito instancabilmente di opere di dogmatica e di apologetica, «E di padri della Chiesa e di teologi — ha scritto — ne lessi una biblioteca, spendendo sopra alcuni e specialmente sulla somma di S. Tommaso gli anni più freschi e della maggior lena.» (III, 368). Or è difficile togliere da una mente così intensamente nutrita di pensiero medievale il marchio della scolastica: l'effetto di una biblioteca di scolastici non si cancella nè in un giorno né in dieci anni. Così per la metafisica: egli si sfoga a dirsi e mostrarsi antimetafisico o ametafisico ma intanto confessa che «dei filosofi ha studiato (ma a lungo e con tutta la lena, e fino dalla prima giovinezza) solo i vecchi metafisici» (I, 57). E non bastano le annate della Revue Scientifique o i libri dell'Helmholtz per lavar certe traccie!.
E scolastico e metafisico è rimasto sempre lo spirito dell'Ardigò. Passando dalla cattedrale sacra alla cattedra laica, dal coro ove cantò coi compni le laudi del Dio cristiano all'aula liceale ove offrì agli scolari occhi sanguinolenti e dialettiche irreligiose, egli serbò in fondo all'anima i caratteri del sacerdote..
Primo di tutti, per sua fortuna. la grandezza. Il positivismo italiano, come quello straniero, è stato il predominio della timidezza e dello specialismo, Il Comte non volle o non potè fare un sistema del mondo e negò anzi che si potessero raccogliere sotto un principio unico gli innumerevoli fenomeni. Il meglio della sua filosofia consistè di fatto, nell'analisi delle scienze particolari. E caduto il positivismo, com'era necessario, nelle mani degli uomini di scienza, esso fu, come loro, specialista, amico delle vetrine separate e nemico delle concezioni d'insieme..
E in Italia, ad esempio, fu pedagogico coll'Angiulli, storico col Villari, biologico col Siciliani e col Sergi, antropologico col Mantegazza e col Morselli, criminalista col Lombroso e col Ferri; universale e cosmologico col solo Ardigò..
Per spiegare questa unicità bisogna ricorrere alla differenza della preparazione intellettuale. Gli altri, venuti dallo specialismo scientifico laico e moderno, rimasero specialisti anche quando s'accostarono alla filosofia. L'Ardigò invece, educato nei seminari e tra le teologie, trasse dalla scolastica e dalla metafisica il desiderio della costruzione grandiosa, quella confusa volontà di recingere il mondo in un abbraccio bramoso ch'è propria dei filosofi di razza. La teologia la quale non solo pensava di tenere il mondo visibile nel cerchio della sua dialettica ma anche dar ragione di ciò ch'è al di là di esso, cioè del mondo divino che lo muove e lo regge, insegnò al filosofo mantovano a sorpassare i chiusi campi delle scienze particolari, tendendo al possesso della legge eterna e universale delle cose. E mentre l'Ardigò positivista diceva: al di là del fenomeno è vana ogni ricerca, l'inconscio Ardigò teologo risaliva alle tenebre dell'indistinto e seguiva l'intrecciarsi dei fenomeni fino alla coppia suprema della materia e della forza. Egli provava una volta di più che a far veramente filosofia, nel senso classico della parola e della cosa, è miglior preparazione la somma di S. Tommaso che un anfiteatro anatomico.
Ma non la sola volontà dell'universale rivela nell'Ardigò il teologo, ma il colorito, la fisionomia della sua opera richiamano invincibilmente la scolastica. Come quello degli scolastici il suo spirito è architettonico. Un amico suo narra ch'egli si diverte a disegnare e che i suoi disegni sono, quasi sempre, o di chiese o di macchine(3). La grande linea, lo schema geometrico, la costruzione unitaria e rigorosa lo attraggono e siccome invece di costruire edifici di pietre e di marmi s'è ritrovato a costruirne di ipotesi e di parole così egli ha fatto della filosofia architettonica, o, più precisamente, della filosofia gotica.
Il suo sistema ha infatti della cattedrale gotica l'uniformità del piano combinata coll'irregolarità della costruzione. Ci sono in esso due o tre motivi fondamentali che ricorrono per ogni dove, che vengono fuori in ogni argomento, che servono in ogni occasione, come quei motivi di archi e di volte che trovi nella navata centrale e ritrovi, colle proporzioni cangiate, nelle navate minori, nelle cappelle e nei chiostri.
Perciò il suo sistema, per quanto si affanni a dirsi e mostrarsi induttivo, ha, per questa unità e continuità di pensiero, delle apparenze di costruzione deduttiva. Si sente che è stato generato tutto d'un pezzo, in un sol getto e in più di trent'anni l'Ardigò ha trovato modo di svolgerlo, di ritoccarlo, di ripeterlo, di diluirlo ma non quello di cambiarlo e di compierlo.
Ed egli si vanta di questa sua immobilità, quasi direi di questa cristallizzazione teorica, ch'è visibile e tangibile malgrado le contingenze esteriori della esecuzione e che mostra il suo spirito rigido, unico, statico, omogeneo, ostinatamente medievale. Egli non è di quei filosofi come Schelling, Gioberti o Nietzsche i quali hanno portato nella filosofia quella mobile nervosità, quel moto lirico e mutevole ch'è degli animi moderni e che crea e distrugge con prodigalità i sistemi e le filosofie come belle immagini che brillano e si spengono per dar luogo ad altre più belle ed effimere ancora, ma appartiene alla stirpe dei filosofi profeti e pontefici che hanno fin dal primo giorno la loro verità e la ripetono con parole poco diverse fino al giorno della morte.
Dal discorso su Pomponazzi agli ultimi articoli della Rivista di Filosofia egli è sempre eguale a sè stesso, sempre tardo, lento, pedante, tedioso, scolastico e meccanico. L'indistinto e il distinto, il fatto e la sensazione sono presenti, sempre, a ogni evenienza, per ogni ufficio, colla precisione regolamentare di gendarmi in fazione.
Questa unità, questa costanza, questa sicurezza geometrica portano a uno degli altri caratteri della scolastica, al dogmatismo.
L'Ardigò, come tutti i logici, è terribilmente dogmatico ed affermativo. Egli secca i suoi lettori per lunghe pagine colle sue dimostrazioni ordinate e pesanti come falangi macedoni, con grandi rinforzi di a, b, c, e di 1°, 2°, 3° e 4°, ma li secca soprattutto quando afferma i principi fondamentali, semplicemente e tranquillamente, senza guardarsi neppure nè indietro nè dalle parti, per vedere se tutti i nemici son fuggiti e se tutti gli amici son soddisfatti.
Egli vuole ad esempio romperla risolutamente colla metafisica e scrive: «L'essenza e le proprietà della sostanza trascendono assolutamente la sfera del nostro comprendimento e quindi non hanno diritto di entrare a far parte di un sistema di cognizioni serie e positive.» (I, 69). Non vi sembra di sentire un papa che lancia scomuniche? Invece di cercar di comprendere cos'è che i metafisici intendono per sostanza, dal momento che qualcosa deve significare se egli stesso mostra di sapere dove abita, e di scoprire quali sono gli elementi del nostro comprendimento che fanno credere a una trascendenza del comprendimento stesso, l'Ardigò, con parola poco opportuna in un positivista, nega assolutamente la comprensibilità e perfino il diritto alla serietà.
Un'altra volta, scrivendo un libro sulla Ragione gli avviene di fare una scoperta e scrive: «Rimangono escluse nella rappresentazione mentale tutte quelle realtà che non sono atte per la distanza, per la tenuità. per la qualità loro, a fare impressione sui sensi. E si può ritenere perciò, senza tema di errare, che il mondo del pensiero non rappresenti del mondo reale, anche di quello più vicino all'uomo, che una parte infinitesima» (VI, 227). Neppure una riga di più e sì che la rivelazione è straordinariamente meravigliosa. L'Ardigò afferma a ogni momento che non esiste che materia o forza (che è lo stesso) e che di questo mondo materiale non si può sapere altro che ciò che è dato dal pensiero (II, 44), cioè riconosce insomma che quello che è, esiste solo in quanto è conosciuto, e poi vien fuori un bel giorno ad annunziarci che il mondo nostro non è che una parte infinitesima del mondo reale. O l'Ardigò ha trovato qualche meraviglioso modo per sfuggire alla legge comune oppure s'è messo in mente di rifare il vocabolario filosofico. In ogni modo dovrebbe darci qualche schiarimento, qualche dimostrazione. Invece egli seguita tranquillamente la trattazione del ritmo dell'esperienza passando all'osservazione terza e continuando, per questa volta, soltanto fino alla nona. Il maestro, l'infallibile, ha parlato e tanto basta alla fede dei fallibili discepoli.
Ho portato due esempi soli ma avrei potuti portarne mille. Perchè l'Ardigò è logico e logico sillogistico, come gli scolastici, cioè espositivo ma non inventivo. È tempo di gridare ben forte che i logici non inventano e non hanno inventato mai nulla, ch'essi non fanno che trarre fuori da una parola o da un assioma quello che c'era stato messo prima, ma non son capaci di aggiungere una sola conoscenza nuova. Il creatore è il poeta, l'uomo intuitivo, che immagina, accosta le cose o trae cose nuove dalle cose vecchie, ed è poeta anche quando è scienziato. Il lavoro, dopo, diviene opposto semplicemente perchè è inteso a fini di versi e lo scienziato vuol essere utile agli uomini in quanto animali mentre il poeta li vuol commuovere in quanto spiriti, ma il fatto primo rimane lo stesso ed è per questo che grandi poeti e grandi scienziati sono degli uomini che vedono più degli altri, non degli uomini che espongono agli altri, degli inventori e non dei didattici. L'Ardigò, in quanto è soprattutto logico, non è nè poeta, nè scienziato.
Nella poesia, scrive egli con scarsa eleganza «è buono tutto ciò che gira nell'immaginazione» (I, 120) e nella sua immaginazione, a quanto pare, non gira mai nulla.
E il suo amore per la scienza è sempre rimasto assai platonico. Egli ha preso qua e là un po' di astronomia, un po' di fisica, un po' di chimica, un po' di biologia raccattandola su per i manuali più noti e le riviste francesi, ma di suo, a questa santa scienza, non ha aggiunto che delle oscure parole. Egli ha detto in altro modo, con fraseologia diversa, quello che gli scienziati avevano trovato innanzi a lui e se n'è giovato per rendere più verosimili alcuni suoi assiomi generali. Insomma ha ricevuto la scienza già fatta, senza arricchirla e vagliarla, come hanno fatto, in ogni tempo, i metafisici. Ma se possiamo perdonare agli scolastici vissuti, ahimè! avanti Bacone di Verulamio e Augusto Comte, di aver accolto la scienza come la trovarono in Aristotile e nel Bellovacense, non possiamo comprendere come un positivista si limiti a rimasticare in formule misteriose e dogmatiche le ricerche personali e positive nel miglior senso di Darwin e di Schiaparelli. Io non capisco un positivista che voglia essere conseguente allo spirito del metodo e che non si chiuda in un laboratorio vestito della bianca tunica dello sperimentatore. Se la metafisica non è, come dice l'Ardigò che «una invenzione al tutto chimerica di una poetica fantasia» (I, 77) l'unica cosa che resti a un uomo serio è quella di fare sul serio della scienza. L'Ardigò, che si dichiara positivista, che fa le lodi della scienza e dell'esperienza e poi sta per otto volumi a baloccarsi coll'indistinto e col distinto, è un non senso. Uomo di scrittoio, ideologo, logico, scolastico egli s'è entusiasmato verbalmente per la scienza ma non ha avuto mai la potenza di farne.
Egli è il parvenu della scienza come è il parvenu dell'ateismo e non riesce nè in quella nè in questo. Si compiace di citare cose di scienza in latino, in tedesco, in inglese e in francese ma non porta neppure l'accenno di un fatto nuovo alla scienza, come insiste sulla naturalità dei fenomeni e l'assurdità del soprannaturale pur restando in fondo all'anima un prete.
Del prete egli conserva, fra gli altri caratteri, la lentezza. La liturgia è necessariamente lenta perchè la fretta ne scemerebbe la maestà ed è lenta come tutte le cose grandi e destinate a svegliare rispetto e venerazione nelle folle. Ora la sua lentezza misurata e calcolata di canonico l'Ardigò la porta nella filosofia. I suoi scritti son lunghi, eterni, goffi, impacciati, pieni di pause, di ripetizioni, di divisioni, suddivisioni, enumerazioni — affollati di filze di osservazioni, di schiarimenti di digressioni — formicolanti di ritorni e di richiami.
Il suo stile e il suo pensiero mancano di quella vivacità, di quel movimento, di quell'ardore, di quella svelta lucidità che rendono così piacevoli anche le idee più aspre. I suoi libri paiono delle sacre processioni che s'avanzino appena fra mezzo a mille inciampi e mille svolte. Fa male a leggerli, come fa male vedere innanzi a sè un vecchio esitante che fa tre passi sopra una pietra. Il buon Ardigò ha tutta l'aria di un vecchio vescovo curvo e lento sotto i pesanti paramenti o, se vogliamo uscire dalle immagini ecclesiastiche, di un saggio bue, il quale, pur essendosi tolto di dosso un giogo, se ne vada lento e tardo come l'usato.
In altre parole l'Ardigò scrive male. Chi non ricorda il motto del vecchio Mamiani il quale trovandosi a giudicare dell'Ardigò in una commissione universitaria disse che gli sembrava doversi discutere piuttosto della leggibilità che dell'eleggibilità del concorrente? Ma questo suo difetto l'Ardigò stesso l'ha riconosciuto ed è inutile insistervi. Ogni suo lettore sa che il suo periodo è pesante e grave e che la sua fraseologia è inutilmente oscura. Piuttosto questa atmosfera di oscurità, ch'è intorno alle opere dell'Ardigò ci può essere lontano indizio del suo essenziale carattere teologico e sacerdotale: l'amore del mistero.
Ogni religione poggia sul mistero e la religione cristiana forse più delle altre. Senza il mistero non ci sarebbe bisogno nè di fede nè di rivelazione; senza mistero non ci sarebbe quella timorosa riverenza che dà origine al culto; senza mistero non avrebbero ragione di esistere le sottigliezze esegetiche delle teologie. Ora il pensiero ardigoiano è in questo senso pervaso da uno spirito religioso: i misteri s'incalzano in esso come in una favolosa cosmogonia.
Dio, tanto per cominciare, è il massimo mistero religioso e parrebbe che l'Ardígò ne avesse fatto a meno. Parrebbe, per chi fosse abituato a ricercarlo soltanto sotto i nomi tradizionali Jehovah o di Zeus, di Brahma o di Míthra. Ma Dio è un astuto signore disposto a farsi chiamare con qualsiasi nome, pur di essere invitato da tutti. Nel sistema di Roberto Ardigò, Iddio, molto modestamente, si chiama Fatto. Il fatto ha tutti i caratteri divini: nessuno glie ne manca. Esso è l'assoluto perchè non esiste niente altro al di fuori di lui; esso è la sapienza, perchè il fatto è la legge e la legge è la scienza; esso è la verità perchè il vero, come già Vico disse, è il fatto, verum ipsum factum — esso è la bontà e la provvidenza, perchè in lui e per lui si realizza il progresso e l'altruismo.
Dio s'è travestito anche in questi ultimi tempi da ininconoscibile ed anche come tale lo ritroviamo nell'Ardigò. Si chiama, in codesta parte, Indistinto, ma i connotati sono gli stessi. L'Ardigò ha avuto ragione a dire che il suo Indistinto non ha niente a che fare coll'omogeneo spenceriano, ma s'è dimenticato di confessarci che ha molto a che fare con un altro servo muto dello Spencer, cioè con Mr. Unknowable. Perchè non bisogna fermarci agli indistinti transitori che sfilano nelle opere dell'Ardigò: bisogna rincorrere il vero, il perfetto indistinto, cioè il primo indistinto, l'Indistinto indistinto.
Il filosofo ci avverte coscienziosamente che «esiste un indistinto superiore a quello stesso della nebulosa solare, l'indistinto cioè dell'essere tutto quanto, ossia la natura.» (II, 43). Cioè il vero indistinto è quello superiore a tutti gli altri, quello che sta di per sè, che non è uscito da altri. Ora un cotale indistinto è per sua natura inafferrabile e inconcepibile, perchè oltre a essere indistinto, cioè indeterminato, è inesplicabile non avendo nessuna fonte anteriore pensabile. Esso rassomiglia perciò terribilmente all'inconoscibile, a quel Dio misterioso dal quale tutte le cose escono e al quale tutte tornano. E come alcuni valenti genealogisti di filosofie hanno scoperte le parentele tra l'Inconoscibile e Dio così è facile vederle tra Dio e l'Indistinto. Questi, come abbiamo visto, è l'inesplicabile e l'Ardigò non ha paura a dichiararlo con la sua calma candidezza. «Tale indistinto non si può spiegare, perchè la spiegazione è una distinzione, e questa, in quanto tale, è la negazione dell'indistinto». (II, 38). Ora qualcosa di molto simile si trova proprio nell'opera di uno dei più profondi scolastici medievali, cioè Scoto Eriugena, il quale diceva che Dio è l'essere inesplicato, mentre il mondo è l'essere esplicato, manifestato e insisteva sull'impossibilità di parlare d'Iddio in modo adeguato, perchè esso è, essendo il tutto, l'ineffabile e l'incomprensibile(4). E da questo senso dell'impossibilità di conoscere Iddio è scaturito il misticismo, che non è una forma della teologia per la sola ragione che n'è un seguito.
In Ardigò, dunque, sì il Fatto che l'Indistinto concorrono al ruolo di divinità e i loro titoli son quasi di egual valore, per quanto l'indistinto ne abbia uno che potrebbe dargli il primato, cioè la potenza creatrice, Le cose, afferma l'Ardigò, esistono in quanto son distinte, anzi la distinzione è proprio il sintomo unico dell'esistenza. L'indistinto, ch'è il contrario, a quanto sembra, del distinto, è dunque l'inesistente per eccellenza. Ora siccome l'Ardigò ci narra che il distinto esce dall'indistinto, noi possiamo sostituire i termini equivalenti e dire che l'essere è prodotto dal non essere, cioè che il tutto è uscito dal nulla. Abbiamo perciò una creazione ex-nihilo in piena regola: la Genesi è vendicata.
E cercando bene si ritrovano nell'Ardigò tutti i misteri cristiani, oltre Dio e la creazione.
L'indistinto, la materia e la forza che sono le forme ultime del distinto formano la Trinità. Infatti, scrive l'Ardigò, «nella realtà la materia s'immedesima colla forza» (II, 59); la materia e la forza così immedesimate formano il distinto, e il distinto, ci avverte lo stesso Ardigò, è «nel fondo lo stesso indistinto» (!) (II, 60), in modo che abbiamo tre cose le quali, pur essendo diverse fra loro, finiscono coll'essere una cosa sola, precisamente come avviene del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Volete un po' di transubstanziazione? Eccovi allora la forza e la materia che divengono la vita poi divengono la psiche, rimanendo sempre le stesse, ma pure trasformandosi in qualcosa di assolutamente nuovo. Se poi aggiungete la Provvidenza rappresentata dal progresso e dalla teleologia della Natura che l'Ardigò personifica tanto volentieri — e se vi accorgete che l'apoteosi del disinteresse, fatto nella Morale dei positivisti non è che il residuo dell'amore evangelico, spogliato dalle parabole e recinto di razionalismo, dovrete esser d'accordo con me nel ritenere la filosofia dell'Ardigò come il tentativo di una traduzione naturalista della teologia cristiana.
Prete nell'anima egli non poteva che produrre una filosofia teologica. E siccome il mistero è l'anima della teologia, così il mistero è l'anima della sua filosofia. Ma il mistero è grande e possente finchè è sugli altari e adorato dalla fede dei semplici. Quando vien portato in filosofia, nel regno dell'idea, non si chiama più mistero ma inconcepibile, e dire delle cose inconcepibili è lo stesso che non dir nulla. E appunto quello ch'è accaduto a Roberto Ardigò.
Io ho pensato più volte che la filosofia è il regno dell'inconcepibile e che tutti i filosofi non hanno fatto che mettere delle grandi tende di parole attorno al nulla.
In questo pensiero nessuno mi conforta più dei filosofi intellettualisti. Se c'è ancora un modo per capir qualcosa del mondo è quello di supporlo simile a quello che conosciamo più da vicino, cioè al nostro spirito; raffigurarci cioè il mondo come un grande essere animato, o come la risultante di più, esseri animati. È per questo che l'animismo dei selvaggi, la concezione di un Dio fattore e ordinatore del mondo, e la weltanschauung volontarista sono le metafisiche che hanno avuto maggior fortuna fra gli uomini. Ma i logici, gli intellettualisti, vedono nel mondo quello che c'è di meno personale, cioè il concetto, l'idea. Hegel, che sembra il più soddisfacente dei filosofi, è invece il il più vuoto e per una ragione molto semplice e che ho detto altra volta, cioè che il particolare, quando è innalzato alla funzione di universale, perde ogni significato e si dissolve per il cielo delle astrazioni come un velo di magia.
L'Ardigò, che ogni istante monta in arcione contro i metafisici cade nel medesimo abisso. Il suo temperamento visivo (notate che le sue immagini sono soprattutto di luci e di linee e che i suoi esempi sono tolti spesso dall'ottica) lo porta alle cose esterne, tangibili, misurabili, visibili, cioè alla parte meno intima e personale dello spirito, alla sensazione. Egli non parla quasi mai di suoni e di musiche cioè dell'arte più profonda e individuale che esista e non ha perciò il senso della personalità, della sfumatura, del diverso, dell'unico ch'è proprio dell'anime e delle melodie.
Inoltre il suo istinto scolastico lo spinge alla logica, alla dialettica, al regno dell'idea, e mentre il positivismo gli imporrebbe l'esperienza e lo studio del particolare egli ascende imprudentemente all' astrazione e al generale.
I metafisici vanno dalle idee alle cose, egli vuole andare dalle cose alle idee, ma insomma l'Idea resta pur sempre la sua Angelica e come gli odiati metafisici egli fa dell'universalismo, cioè, per esser chiari, dell'incomprensibilismo.
E come non tornare a quel suo famoso indistinto parlando d'incomprensibilità? Tutto il mondo, secondo l'Ardigò, si spiega col passaggio dall' indistinto al distinto, cioè, aggiungo io, si spiegherebbe se si potesse spiegare questa sua misteriosissima spiegazione.
L'indistinto infatti è un concetto logico e non ha valore che rispetto a una mente che lo pensa. Cioè o esisteva una mente qualsiasi avanti l'indistinto e allora questo non è più il fatto primo — o non esisteva nessuna specie di mente e allora un concetto mentale anteriore alla mente è impensabile. Inoltre l'indistinto è un termine negativo e suppone come tale il termine positivo corrispondente. Logicamente dunque non sì può pensare l'indistinto anteriore al distinto, e tanto meno si può pensare che una qualità esca precisamente dalla sua contraria. Tanto varrebbe allora star colla Genesi e ripetere che la luce è uscita dalle tenebre. D'altra parte sembra da certi passi dell'Ardigò che non ci sia nessuna differenza essenziale fra distinto e indistinto perchè un fenomeno può essere distinto rispetto all'anteriore e indistinto rispetto al posteriore. Qualcosa di simile all'alto e al basso. Ma questi si possono determinare quando si voglia rispetto ad una unità di misura quantitativa. Qual'è l'unità di misura qualitativa che riesca a precisare la distinzione e l'indistinzione? E insomma cosa ci dice questa famosa legge? Nulla, perchè l'Ardigò ci avverte che c'è anche un moto continuo dal distinto all'indistinto. In questo modo è facile fare delle leggi universali. Si può dire: le cose vanno dal semplice al complesso e dal complesso al semplice, dallo stabile all'instabile e dall'instabile allo stabile, e via dicendo. É molto più semplice e modesto dire: «le cose son diverse nel tempo e nello spazio e non possiamo rivelarvi la legge fissa della loro diversità.» Tutt'al più qualcuno osserverà che non c'era bisogno di far tanta filosofia per venire a questa confessione d'ignoranza incurabile.
E l'Ardigò confessa a più riprese questa sua ignoranza: l'indistinto non si può spiegare, la continuità fra il distinto e l'indistinto neppure, la differenza e l'identità fra materia e forza nemmeno lo stesso determinismo universale, turbato dalla imprudente introduzione dell'inconcepibile infinito, diventa il Caso cioè l'incompreso e l'ignoto per eccellenza. Tutta la metafisica di Ardigò è una serie di incrociature di braccia, o una fila di porte sulla tenebra.
E non c'è il caso che le sue idee si chiariscano scendendo alla teoria della conoscenza o alla psicologia. Che cos'è l'Ardigò in psicologia? Chi ne sa nulla? In un certo punto afferma che non sappiamo della realtà se non ciò ch'è dato dal pensiero (II, 44) come se il pensiero non fosse la realtà o la realtà non fosse il pensiero. Un'altra volta si difende dall'essere idealista per la ragione molto strana ch'egli ammette il mondo esterno, come se l'idealismo consistesse nel negare l'esistenza degli alberi che ci fanno ombra o dei cani che ci abbaiano dietro.
La sua grande scoperta in queste regioni sembra essere quella dell'unità del me e del non me. «Il me e il fuori di me — egli scrive — formano un tutto reale indivisibile, come il diritto e il rovescio del panno si possono bensì distinguere mentalmente ma non separare effettivamente senza distruggere il panno, così il me e il fuori nella coscienza» (I, 144). Che cosa significa tutto ciò? Semplicemente che noi siamo costretti a dare le stesse definizioni di quello che si dice me e di quello che si dice non me, cioè che il non me in quanto è conosciuto è una parte del me, cioè della conoscenza. La scoperta portentosa si rivela un truismo verbale.
In fatto di metodo l'Ardigò è l'amico del fatto. Fatti e nient'altro che fatti. Ma cos'è di grazia, che non sia fatto? Dove mai è dato trovare o pensare il non fatto? E lo stesso che dire agli uomini: non guardate che coi vostri occhi! Anche le idee dei metafisici, le estasi dei mistici, l'introspezione dello psicologo sono fatti. Perchè non dobbiamo servircene per fare una filosofia? Soltanto ciò ch'è misurabile ha diritto al nome di fatto?
In psicologia egli non conosce che la sensazione. Datemi la sensazione, egli dice, e vi rifarò il mondo!
Ottimamente. Ma per giungere a questo magnifico resultato e per costruire tutta la psicologia sulla sensazione egli comincia col dare a questa tutti gli attributi del sentimento e della volontà. Un ritocco al vocabolario basta per darsi il lusso di una simile originalità.
Scendiamo, se Dio vuole, ai problemi pratici. Uno dei principi della sua morale è questo: che ciascuno ha ciò che gli conviene: un essere ha sempre le tendenze che son rese necessarie dalle sue condizioni di esistenza. L'animale, essendo capace di moto, aveva bisogno di distinguere gli oggetti e di provare il piacere e il dolore, e infatti ha la sensazione e la sensibilità.
Mirabile e profondissimo ragionamento! Io ho le gambe perchè avevo bisogno di camminare, e la lingua perchè avevo voglia di parlare. Il bisogno, dolore, cioè fatto psichico, dà origine alla psiche. Le cose sono così perchè dovevano servire ad essere quello che sono e per maggior meraviglia esse danno origine a sè stesse. Padri e figli nel sistema dell'Ardigò come nella teologia cristiana, sono una medesima persona. Portentosa potenza del metodo positivista!
E sapete quali sono le idee che dominano la sua morale? Queste due: che la moralità è un fatto che si produce nell'ambiente sociale e che l'egoismo è la negazione della morale. Due idee veramente straordinarie e significative. La morale è per eccellenza la scienza dei rapporti fra gli uomini, perciò non si concepisce che in una società. Monsieur de la Palisse cedi il tuo trono a Roberto Ardigò!
E a questa società gli individui si debbono sacrificare: ecco il disinteresse. Ma di cosa son composti i gruppi sociali se non di individui? Noi ci sacrifichiamo dunque per gli altri individui, ma questi, come noi, debbono sacrificarsi a noi, cioè il nostro disinteresse consiste nel predicare il mutuo servigio, dal quale traiamo anche noi vantaggio. E infatti come si potrebbe capire un'azione assolutamente disinteressata? Bisognerebbe supporre che nell'azione non si provasse nulla, cioè che fosse inconscia, vale a dire non morale. Ma s'è cosciente sarà piacevole o spiacevole. Nel primo caso è probabile che la facciamo per il gusto che ci dà, nel secondo per la speranza di un piacere futuro (la soddisfazione di aver vinto il proprio dolore, la prospettiva di un compenso altrui ecc.). Poichè l'uomo non può spogliarsi assolutamente dalla sua personalità, un'azione disinteressata, cioè fatta per ragioni impersonali, non può essere che inumana, cioè inconcepibile fra gli uomini. Una tautologia e un'assurdità son dunque i fondamenti della Morale dei positivisti. Dall'universo all'uomo Roberto Ardigò non sa menarci che nel vuoto. Il positivista amico della terraferma dei fatti s'è rivelato un aeronauta più misterioso degli alessandrini.
Soltanto Ardigò, con una delle sue frasi taumaturgiche, potrebbe salvare dalla mia accusa Roberto Ardigò. E il modo non manca. Parlando dello spazio, egli scrive: «Lo stesso spazio che si interpone tra i corpi.... è un esteso continuo. Un esteso continuo reale. Ossia un pieno. Pieno di vuoto, ma pieno». (II, 40). Di cotesta sorta di pienezza son piene appunto le opere di Roberto Ardigò.
(1) Il Maniani, per quanto famoso, non è codesto successore ch'è non seppe iniziare un indirizzo nuovo, e il suo eclettismo variabile e la sua posizione ufficiale furono le ragioni uniche della sua lunga e grande influenza.
(2) Mi servo dell'edizione definitiva delle Opere filosofiche Cremona, 1882, I; Padova, Draghi, 1884-1901 vol. II-VIII.
(3) A. GAZZANI, L'A-ò artista (nel vol. Nel 70° Anniversario di R. A-ò — Torino, Bocca, 1898, p. 96).
(4) De divisione naturae I, 16, - III, 19.
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